Questa me la raccontò mia madre qualche tempo fa.
A quanto pare, negli anni ‘70 Cagliari ospitò lo spettacolo
itinerante di un’ex attrice e soubrette decaduta. Uno spettacolo erotico un po’
triste in un capoluogo provinciale.
Un signore di mezz’età, sposato, attendeva pazientemente in fila il suo turno per entrare. Ma non c’erano solo uomini all’entrata del locale: un gruppo di giovanissime femministe manifestava contro
lo squallore dello show. Una di loro si allontanò dal gruppo per avvicinarsi al
signore in coda.
“Professore, sua moglie non è in grado di fargliela, una
sega?”
Il concetto casareccio di femminismo della compagna di
scuola di mia madre fa sorridere: la soluzione alla mercificazione –
consapevole – di un corpo era un cambiamento del luogo in cui avveniva la
mercificazione. Nell’ottica della picchettatrice la donna continuava ad avere
un ruolo di soddisfacimento maschile, e doveva farlo all’interno delle pareti
domestiche. Una donna subordinata al suo ruolo millenario di strumento in
cambio della “liberazione” di un’altra donna che aveva scelto, se non altro, la
modalità con cui voleva essere sfruttata.
Quando penso a questo aneddoto, mi sento divisa: se siamo
arrivate al “ground zero del femminismo” è stato perché abbiamo bollato certe
azioni come passé e reazionarie o perché molte donne hanno introiettato solo
alcuni aspetti palesi del movimento femminista senza comprendere le critiche
che venivano mosse alla famiglia e alla società?
Ora, prima che mi perda, è meglio che spieghi perché ho
deciso di scrivere questo post. Il motivo non è legato alle battaglie di questi
giorni relative alla legge 194/1978 o al processo Ruby, in corso in questi
giorni, ben più meritevoli di approfondimenti. Il motivo risiede in un account
twitter appena scoperto: @LeTwittine. Quindi forse sì, avrei potuto fare a meno
di tirar fuori concetti storico-culturali. Al netto delle considerazioni che
sto facendo adesso il mio pensiero sarebbe “Rincoglionite” e l’avrei twittato,
anziché scriverlo qui.
Detto questo, chi sono e cosa fanno Le Twittine? Nella bio
si presenta(no) così: “Siamo le Veline di Twitter! Seguiamo e Retwittiamo solo
chi è bello!”. Non so a cosa sia dovuto il tripudio di maiuscole. Comunque la
mission dell’account è seguire le persone belle (come Vittorio Sgarbi), chiedere
ai propri followers (461, li mortacci) dove comprare nani da giardino per una
festa e citare frasi di gente famosa random sulla bellezza. Aspetto con ansia
la sodomizzazione del cadavere di Keats.
I brutti devono estinguersi, e per dare un’idea sui criteri
olimpici per essere considerati belli (con conseguente following) Le Twittine
postano di quand’in quando foto di trans e truzzi. No, non come elementi da
scartare.
Abbiamo sbagliato tutto. Le lotte, lo studio, il diritto al
voto: chissene. La donna deve essere bella, ossia farsi notare attraverso un’identificazione
con i propri caratteri sessuali secondari. Le Twittine vi vogliono ipertrofiche
e con la finta Birkin abbinata alle scarpe. O se siete uomini, depilati e con
la Blue Steel stampata sulla faccia. È questo quello che conta.
“Per coloro chemi han chiesto se sono laureata rispondo di
no. La bellezza miha aperto porte senza che io avessi bisogno di studiare”
(sic)
E tu cos’hai aperto in cambio, mi verrebbe da rispondere. Ma
evito.
La liberazione della donna da certi stereotipi comincia anche
da me. Magari le cose andranno meglio, fra quarant’anni.