mercoledì 2 febbraio 2011

#3 - il falò d'acqua (come ho celebrato il funerale dei miei scritti supponenti e lamentosi di quand'ero ragazzina)

I polpastrelli delle mani sembrano quelli di una vecchia. I miei arti superiori sono immersi in una poltiglia scura e puzzolente d'alcol. A galla emergono pezzetti di carta di differenti dimensioni, colori, spessori. Solo quello che c'era scritto sopra era tutto uguale. E meritava di annegare dentro la bacinella bianca, nel mio bagno.
Di tutte le cose inutili di cui ho avuto il coraggio di disfarmi solo in quell'estate, restavano un diario e dei fogli in cui avevo annotato il mio stato d'animo nei momenti peggiori dei miei anni più bui. Benché non li leggessi da tempo li avevo conservati dentro il bauletto di legno che funge da comodino nella mia camera a Cagliari. Sono rimasti lì dentro per qualcosa come otto o nove anni, sepolti da una collezione di audiocassette piratate e una bottiglia di rum pressoché intonsa risalente al mio diciannovesimo compleanno.
Non saprei spiegare perchè ho conservato una bottiglia di una bevanda che mi fa schifo più di quanto non sappia spiegare perché ho conservato quella che si è rivelata della carta straccia, così come mia madre non saprebbe dire perchè ha conservato per più di vent'anni un mucchio di oggetti che quest'estate hanno trovato nel cassonetto dell'indifferenziato sotto casa una nuova dimora. La domanda, forse, sarebbe più chiara se venisse posta in questi termini: perché conservare per un lungo tempo oggetti che non riportano alla memoria momenti felici o degni di essere ricordati? Né le case né le memorie delle persone sono luoghi infiniti in cui archiviare ogni prova tangibile del nostro passaggio sulla terra. Mi chiedo quali criteri dovrei adoperare per decidere che cosa dev'essere conservato e ciò che verrà dimenticato. È a questo che sto pensando, mentre sminuzzo la carta e osservo l'inchiostro dissolversi nell'acqua e nel rum.
Forse è così ovvio che non meriterebbe menzione, ma la curiosità ha avuto la meglio sul disgusto ed ho letto parte degli scritti.
Diario.
Una specie di quaderno artigianale realizzato e venduto in una bancarella di Via Manno da una fricchettona biondina. Copertina di panno viola e molte pagine grosse, del colore delle buste postali. In apertura una frase copiata dal secondo album dei Distillers, mia vera passione dei sedici anni. Nella quasi totalità dell'opera farnetico sulla mia cotta per il gelataio di piazza Yenne e descrivo tutti gli eventi che costituivano il mio goffo corteggiamento, le sue ancor più goffe reazioni e tutte le seghe mentali annesse e connesse.
Fogli sparsi scritti a mano.
Il grosso della mia produzione intellettuale 2000-2001. Pagine strappate dal centro dei quaderni e fogli bianchi formato A4, perlopiù. Carta imbrattata da poesie orribili e brevi (a tredici anni non poteva essere altrimenti) autobiografie. Oltre alla non-fiction, pochi inconcludenti incipit di racconti (non ho perso l'abitudine).
Fogli sparsi scritti a macchina.
Testi di canzoni, tablature per basso e chitarra e qualche componimento per la scuola: un compito per le vacanze (storia d'amore dal finale tragico con una sola citazione letteraria), la trama di Sostiene Pereira, una pagellino della quarta superiore, il reperto più recente.
Lettere.
Disegni.
Volantini.
Trrrr-trrrr. ogni foglio viene stracciato a mano in un numero di parti che è sempre una potenza di 2. Trrrr-Trrrr. 4. Trrrr-Trrrr.
Ma anche così c'erano frammenti leggibili, anzi il problema era proprio che avevo fra le mani frammenti. Avevo qualcosa tra le mani, qualcosa che era ancora riconoscibile come scrittura. Non si trattava più di evitare che qualcuno potesse leggere. Era la presenza di parole che avevo combinato in una sequenza che raccontava cose stupide come se fossero importanti, meritevoli di essere ricordate. O cose dolorose, di quel dolore della società del post nato dall'eccesso e non dalla mancanza. C'era qualcosa di osceno e offensivo nella scelta di scrivere certe cose.

All'inizio pensai ad un funerale vichingo per tutta quella carta, ma un appartamento non lo permette. Poi mi venne l'idea dell'acqua. Forse per via di alcune parole di un grande poeta:

Fleba il Fenicio, morto da quindici giorni,
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare
E il guadagno e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in sussurri. Mentre affiorava e affondava
Traversò gli stadi di maturità e gioventù
Entrambi nei gorghi.
E così annegai la carta. All'acqua aggiunsi il rum, ad essi si aggiunse l'inchiostro; poi il liquido spolpò la carta in sussurri.

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